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mercoledì 5 ottobre 2016

Recensione Carla Dolce (a cura di) F. De Roberto, I Viceré, Newton Compton, Roma 2014, ISBN 978-88-541-6556-4

F. De Roberto, I Viceré,  Newton Compton, Roma 2014, ISBN 978-88-541-6556-4
                                                                                                                                                                                                                                                             
Federico De Roberto, intimo amico di Verga e Capuana, nasce a Napoli nel 1861 e muore a Catania nel 1927. I Viceré, pubblicato nel 1894, è una delle opere più importanti della letteratura italiana, ciò nonostante non ha portato il giovane autore al successo sperato. Fra gli altri romanzi scritti da De Roberto, ricordiamo L’Illusione (primo romanzo del ciclo degli Uzeda), La Sorte e Processi verbali.
Il romanzo storico I Viceré è uno dei migliori libri che io abbia mai letto finora. Ambientato a cavallo fra gli anni dell’Unità d’Italia e il periodo che la precede, questo libro è riuscito perfettamente ad incarnare la realtà, descrivendola in modo molto diretto tramite le vicende dell’aristocratica famiglia di origine spagnola residente a Catania, la famiglia Uzeda di Francalanza. 
La morte della principessa, segna la fine del periodo borbonico e sancisce l’inizio delle rivolte e delle riforme che porteranno in seguito all’unificazione del Paese. I personaggi del romanzo hanno tutti caratteri molto diversi tra loro e, sebbene siano sette fratelli, ognuno pensa prettamente a se stesso, curandosi solamente dei propri interessi e infischiandosene delle ragioni dei fratelli e dei  diritti altrui. Soprattutto Giacomo, principe della casata e primo maschio di sette figli, si occupa esclusivamente dei propri affari, preoccupandosi più di arricchirsi personalmente e di spogliare i suoi fratelli della loro parte di testamento lasciato dalla madre, che della felicità dei propri familiari. 
Fin da bambino, cresciuto da una madre che ha sempre preferito gli altri fratelli a lui, è stato abituato a regole molto rigide e adesso fa la stessa cosa con i suoi due figli: Consalvo e Teresa. Consalvo (poi diseredato dal padre sul letto di morte), bambino molto testardo e ribelle al padre, viene chiuso in un monastero fin dalla tenera età. Lì, oltre a diventare intimo amico di Giovannino Radalì (in futuro, spasimante della sorella), sente parlare dell’arrivo di Garibaldi, e quindi comincia a sperare nella “liberazione” del Monastero per poter scappare da quel luogo e cominciare finalmente a vivere. 
Spera di non divenire mai freddo e brusco come suo padre, ma l’odio che nutre verso quest’ultimo, col passare del tempo, non fa che aggravarsi sempre più, soprattutto dopo la morte della madre Margherita e le nuove nozze del padre con Graziella. 
In seguito a un viaggio in giro per il mondo, si rende conto che il suo titolo di principe di Francalanza non serve a nulla: nessuno sa della sua esistenza e nessuno lo ritiene importante come a Catania, così, accecato dalla voglia di avere fama e successo, inizia a fare esattamente ciò che faceva il padre, ovvero cercare di accumulare sempre più potere e arrivare sempre più in alto, a qualunque costo, senza nessuno scrupolo. Non esprime nessuna ideologia politica, o meglio cerca di assecondare tutti facendo buon viso a cattivo gioco, fa ciò che reputa conveniente e che potrà essergli comodo in futuro, riesce a diventare sindaco di Catania e dopo, per saziare la sua sfrenata cupidigia, si candida come deputato al governo del regno d’Italia, tradendo la stima dello zio Benedetto Giulente, anch’egli candidato. 
La sorella Teresa, ragazza molto religiosa e obbediente, invece, è il suo esatto contrario: esegue tutto quello che il padre e la matrigna le dicono, cerca di rendere tutti felici e addirittura rinuncia all’amore per Giovannino (che dopo vari anni si suiciderà per questo) per sposare Michele, il fratello di quest’ultimo, tutto ciò per non dare un dispiacere alla sua famiglia. Lucrezia, sorella del principe Giacomo, dopo aver sognato per anni di sposarsi con il garibaldino Benedetto Giulente, e quindi essere pronta a litigare per lui con la sua famiglia borbonica e conservatrice, dopo le nozze inizierà a denigrare sempre di più il marito, sindaco di Catania prima di Consalvo, a trattarlo in malo modo e a parlarne male davanti alla gente. Chiara, altra sorella di Giacomo, dopo essere stata costretta dalla madre a suon di frustate a sposare il marchese Federico, inizierà ad amarlo sproporzionatamente, fino a quando, nascerà il bambino del marito e di una serva, al quale dedicherà anima e corpo come fosse suo figlio, cominciando ad annientare il mondo circostante. Raimondo, fratello del principe e prediletto dalla madre, infrangerà le regole del suo rango provocando anche litigi e contrasti in famiglia per ottenere l’annullamento del suo primo matrimonio e potersi risposare. Ferdinando, chiamato il babbeo, sciocco e solitario, fratello anch’egli di Giacomo, conduce quasi tutta la sua vita in campagna, dedicandosi alle sue amate ghiande, ma alla fine, abbandonerà quella che per anni era stata la sua unica ragione di vita per trasferirsi in città e vivere nel lusso più totale. Inoltre, Lodovico e Crocifissa, sono i due fratelli destinati dalla madre alla vita monastica. 
Insomma, una famiglia molto grande e molto “strana”: ognuno pensa solo a soddisfare le proprie esigenze, senza crearsi alcun problema nel limitare le possibilità degli altri, tutti agiscono per tornaconto personale. Tutti o quasi tutti i personaggi, nel corso degli anni, mutano completamente, cambiando in maniera drastica, ma alcuni, tornano alla fine ad essere come in origine: ad esempio  Lucrezia, dopo aver odiato per anni il marito in seguito ad uno schiaffo ricevuto da quest’ultimo, scoprirà di amarlo ancora come prima; o Chiara, che non appena avrà avuto ciò che di più desidera dalla vita tornerà a disprezzare il marito, dedicandosi interamente al bambino che, per altro, la tratta come una schiava. O ancora, trovo quasi assurda la totale indifferenza di Teresa che, per non far soffrire suo padre, preferisce soffrire lei per il resto della vita. Comico è invece il personaggio di Don Blasco, monaco zio del principe: dopo aver vissuto la sua vita al monastero - ma comunque senza mai rinunciare alla vita mondana - nel momento in cui vengono aboliti i privilegi del clero e il monastero viene sgomberato, ruba le ricchezze lì presenti per garantirsi un avvenire. Alla sua morte, scoppia un’altra lite in famiglia per l’autenticità del testamento. 

Quindi, alla fine si torna al punto di partenza, commettendo gli stessi errori: se quando c’erano i Borboni, gli Uzeda erano molto uniti a questi e avevano molto potere, adesso, al tempo dell’Unità del paese, ci si adeguerà a raggiungere il potere in altro modo. Non a caso, l’ultima frase del romanzo recita: <<Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il vicerè Ximenes (discendente degli Uzeda) imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte (…) la storia della nostra famiglia è piena di conversazioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male (…) no, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa>>.

Carla Dolce
ex allieva Istituto S. M. Mazzarello
A.S. 2016/2017

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